venerdì 24 luglio 2009

ancora a proposito di Michael Jackson

Il sound americano mi si era rivelato già agli inizi degli anni 70 con le canzoni dei ‘Sunday Funnies’, e alla metà del decennio successivo con un pezzo intimistico, languoroso e sincopato come il ‘Sexual Healing’ di Marvin Gaye. Non avevo approfondito l’argomento musicale del momento e non me ne curavo troppo. Perfino la moria di artisti come Jimi Hendrix, Jim Morrison e Bob Marley mi aveva lasciato, scusate tanto, indifferente. Sempre in quegli anni mi aveva invece affascinato, anche se con notevole ritardo, un certo stile musicale californiano ‘on the road’, che per strani automatismi della psiche visualizzavo in interminabili highways assolate e con scarso traffico, come quella che da San Diego porta a sconfinare a Tijuana, dove bikers neri come corvi avviavano le loro Harleys scalciando a grandi colpi di pedivella, quando insieme al ruggito dei motori bicilindrici mi si avviava dentro anche il sound dei Bee Gees (i quali però americani non erano, ma ‘soltanto’ inglesi). Per il resto, la faccia del mio pianeta musicale, più che al sole, era rivolta alla luna, e a Saturno. Era la musica barocca e classica che mi teneva prigioniero. Tra le pareti di casa, quando la lunare, saturnina liturgia di concerti grossi, stabat mater e quartetti d’archi veniva eccezionalmente interrotta dal suono di strumenti elettrici, Franz Joseph Haydn mi guardava severo dal suo ritratto a parete, facendomi sentire come un seminarista sorpreso a gironzolare di notte in un quartiere a luci rosse. Ma torniamo ad oggi, alle 48 ore che sono seguite a quel 26 giugno da cani. In quel breve intervallo di tempo, è come se tutto il groppo di musicalità pop da me non vissuta mi si fosse sciolta in blocco. Me questo è un problema mio. Mi auguro solo che la fine di Michael Jackson non ci induca a sollevare questioni oziose come 'ora non avremo più la sua musica', dato che alla bisogna si tratterebbe di un problema di music-fiction tecnicamente superabile. I computer dei tecnici del suono di Neverland hanno sicuramente immagazzinato una tale quantità di dati sonori da essere in grado di comporre da soli canzoni ‘originali’ di Michael Jackson per molti anni a venire. Si preme una determinata combinazione di tasti ed ecco che esce un clone di ‘Dirty Diana’. Premendone un’altra, oplà ecco che vede la luce una creatura figlia dello sperma surgelato di ‘Human nature’. Quanto ai contenuti puramente musicali delle canzoni di M.J., spiacerà forse dover riconoscere che quelli dei brani di Eric Clapton, tanto per fare un esempio, sono più ricchi e intensi. Si dovrà allora concludere che il prestigio personale di M.J. ha motivazioni diverse? M.J. sapeva abbindolare folle da stadio olimpico di Pechino e oltre. Ai suoi concerti decine di giovani cadevano in deliquio e venivano portati su barelle in centri di rianimazione, e queste cose succedono a Lourdes o alla Mecca. Il pubblico mangiava dalla sua mano, e la sua mano moltiplicava i pani e i pesci, mentre la rabbia dei suoi piedi gli consentiva di camminare sulle acque. Il fascino di M.J era dunque di natura religiosa? Il suo ‘moon-walking’ era di natura shamanica, le sue rotazioni sui palcoscenici di mezzo mondo erano davvero dervisciche, a imitazione delle rivoluzioni dei corpi celesti? Va detto anche che il suo linguaggio corporeo, oltre che al sufismo, si rifaceva al cattolicesimo avventistico di vecchio stampo: a esibizione ultimata, nel fragore osannante, nei pianti e nello stridore di denti della moltitudine in delirio, M.J. si immobilizzava sul palco, il capo rovesciato all'indietro, le braccia aperte e distese a formare una croce, come prima di lui Pio XII soleva fare. Se così stanno le cose, chiudiamo il caso, mettiamoci su una pietra (tombale), e lasciate che io continui lo studio critico della vita di Michael, la pia esegesi della sua morte e miracoli che seguiranno. Permettetemi anche di concludere questi miei appunti. Da un momento all'altro dovrebbe suonare il campanello di casa. L'incaricato della mia biblioteca comunale deve recapitarmi un’altra serie di volumi utili al mio studio forsennato della persona del defunto Michele (per gli amici). Già altri carichi di volumi incombrano tutte le altre stanze del mio alloggio. Ci sono volumi ovunque, che riempiono armadi, dispense e ripostigli. Quest’ultima fornitura di tomi, 9000 chili in tutto, sono studi che vertono su di un unico argomento: la ‘vitiligo’.